Pensieri da bere dell’Osservatorio Permanente sui Giovani e l’Alcool

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WELCOME TO THE MACHINE

L’ILLUSIONE PERFETTA DI CHATGPT NASCONDE UN INGANNO

Welcome my son, welcome to the machine, where have you been?

Così cantavano i Pink Floyd negli anni 70. Loro parlavano della macchina dell’industria discografica, ma oggi, con l’ascesa del fenomeno dell’Intelligenza Artificiale (IA), le parole evocano scenari diversi. Così almeno ci sembra dopo un test che ci ha visto interrogare ChatGPT in una conversazione sull’alcol, sulla salute e sulle politiche alcol-correlate (lo trovate descritto nell’ultima Newsletter: https://www.alcol.net/osservatorio-news-n-53-la-newsletter/).

Il software si è dimostrato relativamente affidabile, spesso pertinente e senz’altro capace di sostenere la conversazione e di masticare quantità inimmaginabili di dati per scodellarli all’interessato su un vassoio d’argento. Ma qua e là emergono incrinature apparentemente piccole, che smascherano l’illusione perfetta nella quale ci trasporta il software e che fanno improvvisamente ricordare (o capire) che l’IA dietro ChatGPT non è forse così “intelligente”. Il chatbot, in realtà, non capisce davvero quello che “legge” e che “scrive”, non “sa” che la birra è più leggera del vino, che il rum non è la bevanda alcolica più indicata da bere quando fa caldo, non distingue tra fatti e opinioni, in alcuni casi si contraddice apertamente.

ChatGPT ha grandi potenzialità, potrebbe rendere obsoleti i motori di ricerca tradizionali e i compiti a casa e sostituire ampi settori di lavoro intellettuali, ma mostra anche di avere i difetti che affliggono gli strumenti per la generazione di testi. Dal momento che imitano prodotti creati dall’uomo in modo puramente statistico, questi programmi sono inclini a inventare fatti in modo molto convincente e a riprodurre pregiudizi. Fin dalla creazione del primo chatbot nel 1966 (era Eliza del MIT), i ricercatori hanno notato che anche le abilità di conversazione più rudimentali possono incoraggiare le persone ad antropomorfizzare e a riporre fiducia nei software: un chatbot che si presenta come un sistema così eloquente e ben informato nasconde, quindi, un’insidia aggiuntiva. Forse la maggior parte delle persone non salta a conclusioni così nette, ma è evidente che l’inganno è dietro l’angolo.

E dunque cosa dobbiamo pensare di ChatGPT? È divino o diabolico? La risposta dipende dall’esercizio del nostro senso critico: mettere in dubbio sempre anche la macchina, e la perfezione di cui l’uomo la ritiene capace. Sì, la prima impressione potrà essere quella di avere a che fare con una mente umana, o quasi: un sogno (o un incubo) che diventa realtà. Ma solo per chi rinuncia al proprio senso critico, appunto: l’unica difesa che permette di sfuggire alla tentazione di credere in qualcosa che non è e, allo stesso tempo, da quella di condannare senza appello ciò che invece potrebbe diventare una risorsa, purché ben utilizzata.

D’altronde, il chatbot di OpenAI non è forse quello strumento rivoluzionario che è sembrato all’inizio. Come afferma Noam Chomsky (insieme a Ian Roberts e Jeffrey Watumull) in un articolo sul The New York Times dell’8 marzo scorso (https://www.nytimes.com/2023/03/08/opinion/noam-chomsky-chatgpt-ai.html), la vera intelligenza non consiste solo di congetture creative, ma anche di critiche creative. ChatGPT è incapace di distinguere il possibile dall’impossibile, e anche se afferma che la Terra è rotonda e non piatta non sa distinguere tra i due concetti. Fornirà semplicemente la risposta statisticamente più “probabile”, che non è necessariamente la più attendibile. “Welcome to the machine” dunque, a patto di non crederla infallibile e “senza peccato”.

IL CAROSELLO DEGLI SCIENZIATI

I media stravolgono ma gli esperti imparino a comunicare

Un’intervista ad Antonella Viola sul Corriere della Sera (edizione veneta) del 20 gennaio 2023 ha innescato una reazione a catena di proteste, precisazioni, controrisposte, attacchi e difese esemplari delle dinamiche correnti della comunicazione. Se poi l’argomento è il danno associato al bere (e del vino in particolare), si può star certi che ogni parola sarà soppesata, valutata, criticata con il bilancino del farmacista in una mano e un fucile a canne mozze nell’altra. Si aggiunga che se i contendenti fanno parte della schiera dei virologi oramai arruolati permanentemente nella girandola televisiva che da tre anni (spesso meritoriamente) fa il punto sulla pandemia, l’attenzione mediatica si impenna in modo esponenziale. Quanto segue è una cronaca senza commento da giornali e siti dell’ultimo fine settimana.

Il fuoco alle polveri lo dà Viola venerdì 20 gennaio. Dopo aver ribadito con l’OMS che c’è una relazione dimostrata tra alcol e una serie di tumori, alla domanda se causa anche danni cerebrali risponde: “Sì, studi recenti hanno analizzato le componenti della struttura cerebrale, dimostrando che uno o due bicchieri di vino al giorno possono alterarle. Insomma, chi beve ha il cervello più piccolo”.

Lopalco sul Corriere del Mezzogiorno on line del 21 gennaio ribadisce che Viola ha confermato ciò che l’OMS dice da tempo: nessuna dose è sicura. Ma poche righe dopo afferma: “Si può ragionare di quanto aumenti il rischio dell’insorgenza del tumore, se l’assunzione di alcol viene associata ad altri fattori di rischio. Per esempio il fumo, la vita sedentaria, l’alimentazione scorretta e altre abitudini dannose. Si capisce: è la somma dei vari fattori che determina il risultato del rischio complessivo. E conta anche la quantità”.

Ma intanto l’intervista a Viola rimbalza su giornali e siti e mette in allarme non solo i produttori – e fin qui nulla di strano – ma anche i medici “compatibilisti” (guarda caso particolarmente numerosi in Veneto). Tra questi Fernando Bozza ex direttore della Senologia dello IOV, controreplica: Anche troppi zuccheri fanno male, siamo d’accordissimo… ma le cose vanno chiarite. Passare il messaggio che bere un bicchiere di vino in modo saltuario sia rischioso e aumenti il rischio pone il focus su un singolo aspettoquando i fattori di rischio sono quasi sempre combinati: età, predisposizione familiare, obesità, attività fisica, sono tanti e agiscono tutti insieme. E su tenori analoghi anche il cardiologo Claudio Bilato, dell’ospedale di Arzignano (Vicenza): Ben diverso è se si bevono due bicchieri al compleanno, al ristorante o all’aperitivo settimanale con gli amici. L’approccio deve per forza essere olistico. C’è la sostanza in sé ma anche la situazione. La privazione assoluta di un piacere probabilmente è peggiore che assumerlo in quantità modeste (Corriere del Veneto, 21 gennaio). A cui si unisce Fabio Farinati primario di Gastroenterologia dell’Ateneo patavino (incidentalmente lo stesso di Viola): “Purtroppo in Europa il 25 per cento della popolazione ha problematiche importanti al fegato legate all’obesità, al diabete … ci sono approcci più o meno restrittivi ma un consumo sporadico in una persona che fa attività fisica, non è sovrappeso e non ha altre problematiche non ha nessun effetto sfavorevole, anche se va tenuto conto, questo sì, che la donna deve fare più attenzioneper una minore capacità di assorbimento. Ma si sa che le scintille frequentemente danno origine a grandi incendi. Sulla Stampa di domenica 22 gennaio (“Vi spiego perché un aperitivo vi accorcia la vita”) Viola, dopo aver ricordato che la molecola dell’alcol etilico è potenzialmente cancerogena a qualsiasi dose, insiste e ribadisce: “Solo per citare un recente lavoro pubblicato sulla rivista Nature Communications, i ricercatori hanno dimostrato in maniera molto solida che le persone che bevono da uno a due bicchieri di bevande alcoliche al giorno hanno un volume del cervello inferiore e presentano visibili alterazioni strutturali rispetto a chi non beve mai. Quindi anche un consumo moderato danneggia il cervello, non solo l’abuso(ma non avevamo letto che piccole dosi proteggono dall’Alzheimer?).

Nel botta e risposta dei giornali si sono inseriti anche i giornalisti, specie se di grido e di sicura appartenenza alla schiera dei bon vivants. Cosi Vittorio Feltri (Libero, 21 gennaio) ci regala qualche indimenticabile affermazione: “il vino buono non è un veleno, ma un toccasana, come dimostra il fatto che molti centenari italiani sorseggiano gai un po’ di bianco e un po’ di rosso senza dare retta alla menagramo docente all’Ateneo di Padova dove, per altro, chi non beve peste lo colga”.  Uno con le idee chiare e senza mezze misure…

Buon ultimo, ma questa volta su Instagram, un altro virologo star, Marco Bassetti di Genova, dice la sua accanto ad una foto che lo raffigura nei panni del perfetto connaisseur in camicia (non camice…) bianca e bicchiere di rosso sapientemente esibito in primo piano: il suo [della Viola] è un messaggio corretto dato nella maniera sbagliata. Credo che sia giusto dire alle persone che non bisogna esagerare, che il vino può far male quando si usano delle grandi quantità». E conclude parlando della collega: “Ha raggiunto livelli di scienza elevatissimi. Inarrivabili per chi ama il vino. Cin Cin!”

Ce n’è davvero per tutti. E per tutti i gusti. E per tutti i palati. Mi chiedo che impressiona ne tragga il comune lettore che vorrebbe capire di più. Tralasciamo ogni commento sul merito. Ma sconcerta registrare come la comunità scientifica, e quella medica in particolare, una volta raggiunto il palcoscenico dei media generalisti perda spesso la bussola e non si renda conto dell’uso distorto a cui espongono le proprie affermazioni. Allarmisti e compatibilisti si mettano nei panni di chi deve recepire il messaggio e facciano lo sforzo di esporre i pro e contro con precisione limitandosi alle cose che conoscono davvero, distinguendo il certo dal probabile e il possibile dal necessario. Un lettore interessato davvero al tema preferirà un onesto “non so” o “non mi sembra” argomentati a dei sì o dei no apodittici. La buona scienza si fa strada con il fioretto non con la clava. Tutto il resto è un di più che verrà utilizzato male.

Diranno che è il sistema dei media ad incoraggiare polemiche pretestuose e favorire i fraintendimenti. Sarà. Ma quando il richiamo della notorietà e le lusinghe del proprio nome nei titoli si fanno sentire, risuona sempre l’indimenticabile invito del Don Giovanni mozartiano: “Venite tutti avanti, graziose mascherette… é aperto a tutti quanti…viva la libertà!” (Mozart, Don Giovanni – Secondo atto).

GENNAIO, IL PIÙ CRUDELE DEI MESI

Secondo T.S. Eliot, poeta e saggista tra i più importanti del ‘900, il mese più crudele era aprile (The Waste Land, 1922), che risveglia la natura sopita con la pioggia di primavera. Ma forse anche gennaio, con il suo solito e stanco schema di bilanci dell’anno appena concluso e buoni propositi per quello appena iniziato, non scherza. A gennaio, si sa, si riscopre la responsabilità: quale periodo migliore per un mese di sobrietà, l’ormai noto a tutti Dry January? Per chi decide di parteciparvi, il Dry January è sinonimo di un mese di astensione totale dall’alcol, in un’ottica “depurativa” dopo gli eccessi delle festività. Negli anni è diventato sempre più popolare, soprattutto nei paesi anglosassoni, ma anche in Italia da qualche tempo è entrato nei discorsi di inizio anno.

Per persone abituate a consumi elevati, 31 giorni senz’alcol producono effetti positivi immediati, ma se guardiamo un po’ più nel lungo termine, ai restanti 334 giorni dell’anno? Per alcuni, l’occasione del Dry January fornisce la spinta a rimodulare in maniera un po’ più duratura i propri consumi. Per tanti altri che ritornano subito ai livelli abituali, o che addirittura subiscono il cosiddetto “effetto rebound”, gli effetti positivi sono più o meno pari a zero. Tra l’altro, per molte persone passare improvvisamente all’astensione totale, affrontando una scelta così netta tra bere e non bere, è controproducente: un approccio più graduale, che inviti a ridurre i consumi invece di abolirli del tutto, sarebbe forse un obiettivo più abbordabile, che permetterebbe di tener fede ai buoni propositi anche in maniera più duratura. Insomma, sarebbe più utile bere meno tutto l’anno, invece di imporsi un solo mese di mal sopportata privazione.

Ad ogni modo, il mese della sobrietà è diventato ormai un appuntamento fisso. Se ne sono accorte anche le aziende, che stanno espandendo il proprio interesse verso il mercato dello “zero alcol”: un settore in costante crescita che conquista sempre più consumatori, e che ha raggiunto un giro d’affari globale di 12 miliardi di dollari. Il Dry January sta seguendo in effetti un trend molto più ampio di diminuzione dei consumi di alcolici, che sta emergendo un po’ in tutto il mondo soprattutto tra le nuove generazioni. Si tratta di un passaggio generazionale ormai sempre più evidente, guidato da una maggiore attenzione al benessere e alla salute psico-fisica in generale, ma anche da una maggiore consapevolezza della propria immagine e reputazione, soprattutto online: postare foto da ubriachi ormai non è più di moda, anzi.

La moda del “Gennaio Asciutto” sembra quindi essere un fenomeno marginale rispetto a quello ben più interessante e strutturale del declino dei consumi. Anche in Italia si sta facendo strada una certa intolleranza verso l’eccesso, ripresa anche dal giusto appello di fine anno del Presidente Mattarella sul tema delle vite perse a causa degli incidenti stradali: parole che sottolineano l’importanza del problema vista anche la solennità del contesto nel quale sono state pronunciate.

TRA BIRRA E DIRITTI, LA FIFA SI SALVA IN CORNER

Ha fatto scalpore la notizia della decisione del Qatar di vietare la vendita di alcolici dentro e attorno agli otto stadi dei mondiali di calcio 2022, togliendo ai tifosi il piacere di una birra durante la partita. Alla fine hanno prevalso le pressioni dell’Emirato, che hanno “gelato” Fifa e spettatori (inclusa la Budweiser, sponsor dei mondiali di calcio, forte di un contributo di 75 milioni di dollari). Si possono bere alcolici solo nelle zone riservate, dalle 18,30 all’una del mattino, e non certo a buon mercato: una birra media costa 13 euro. A fronte di reazioni come quella del commissario tecnico della Svezia Janne Anderson: “Come puoi guardare la finale di una Coppa del Mondo senza bere birra? Per me è una scelta del tutto incomprensibile”, le agenzie di salute pubblica, che da tempo hanno nel mirino l’approccio alle sponsorizzazioni della Fifa, hanno timidamente approvato le restrizioni.

La piccola nazione del Golfo si è aggiudicata il diritto di ospitare la Coppa del Mondo nel lontano 2010, in modo non trasparente che ha portato all’azzeramento della dirigenza calcistica mondiale dell’epoca. A distanza di 15 anni, scopriamo che il Qatar (come moltissimi altri paesi al mondo) non è una democrazia e ha un serio problema con i diritti umani. E ci stupiamo delle restrizioni sull’alcol. Come se fosse una novità che nei paesi islamici l’alcol, benché disponibile, sia strettamente controllato: ai visitatori che lo desiderano è permesso acquistare birra e altre bevande alcoliche solo nei bar degli hotel di lusso, e a caro prezzo. 

E d’altronde non è sicuramente una sorpresa l’ipocrisia con cui si passa sopra un po’ tutto in nome di altri vantaggi: a partire dagli almeno 6.500 lavoratori che si stima siano morti nei cantieri degli stadi, fino al diritto di poter esprimere liberamente la propria opinione, che è stato negato anche ai calciatori. Ipocrisia che si palesa appieno nelle aree “hospitality” degli stadi: la zona franca per Vip dove, dietro pagamento di un biglietto che va dai 950 ai 34.300 dollari, è possibile sorseggiare liberamente champagne, vino e liquori. Con buona pace degli spettatori “comuni”.

La lettera che la Fifa ha inviato a tutte le squadre partecipanti dice: “Per favore, ora concentriamoci sul calcio”. Ma sembra proprio che ormai i Mondiali siano diventati qualcosa di molto lontano da un evento sportivo e che la governance del calcio si arrampichi sugli specchi per tenere insieme il tutto senza rinunciare a niente. Per dirla tutta, si sono salvati in corner.

Suona ironico difendere la libertà dei tifosi di bere allo stadio, quando la lista dei diritti violati è tanto lunga. Si tratta piuttosto di ricordare che i divieti assoluti che vogliono limitare le libertà altrui, che sia in nome di motivi culturali e religiosi o di quelli votati alla causa della salute pubblica, provocano sempre molti altri danni, forse anche maggiori.

DONNE, ALCOL E FESSERIE

Le opinioni del leader Jarosław Kaczyński sono ormai improponibili anche in Polonia

Perché le donne non fanno più figli? Perché bevono troppo alcol. Così almeno secondo il leader polacco del partito di destra Diritto e Giustizia (PiS), Jarosław Kaczyński, secondo cui il consumo eccessivo di alcolici da parte delle giovani donne sarebbe la causa del basso tasso di natalità del suo Paese. “Se assisteremo al perdurare di una situazione in cui, sino all’età di 25 anni, le giovani donne bevono tanto quanto gli uomini della stessa età, non ci saranno più figli”, ha detto Kaczyński nel corso di un evento pubblico a Elk, una piccola città nel Nord-Est della Polonia. E come se non bastasse ha aggiunto: “Un uomo, per diventare alcolizzato, deve bere eccessivamente in media per 20 anni, mentre a una donna ne bastano solo due”. Così gli avrebbe detto un medico.

Le affermazioni, palesemente prive di qualsiasi fondamento scientifico, si commentano da sole. Le parole del politico sono state messe sotto accusa anche da gruppi di attivisti per i diritti delle donne del Paese che, all’origine della bassa natalità, puntano il dito contro circostanze ben diverse: dai costi sempre più elevati richiesti per crescere un figlio fino allo scarso supporto fornito dallo Stato alle famiglie. Tra l’altro, lo stesso Kaczyński ha dovuto ammettere che il programma del governo, che aveva introdotto un sussidio mensile di circa 100 euro per ogni bambino, non ha funzionato.

Queste reazioni dimostrano che anche in un paese come la Polonia, dove la tradizione religiosa e il contrasto tra aree urbane e campagna hanno ancora molto peso, discorsi come quelli di Kaczyński non sono più accettabili. Sotto sotto anche per gli elettori della destra tradizionalista, ai quali chiaramente il politico si voleva rivolgere con il suo discorso in vista delle elezioni parlamentari che si terranno l’anno prossimo. E del resto, la Polonia è ormai un Paese con un’economia avanzata, con standard di vita in crescita ed un elevato tasso di sviluppo. Ed è noto che l’arrivo del benessere ha un notevole impatto sulla crescita demografica: se guardiamo all’Italia, per esempio, il tasso di natalità è anche più basso di quello polacco.

L’atteggiamento paternalistico di Kaczyński stride ormai anche in Polonia, dove la maggioranza delle donne si è lasciata alle spalle l’idea della maternità come compito “riproduttivo” patriottico. E quanto all’alcol, forse non sarebbe male ricordarsi dei consumi medi della popolazione maschile polacca, sicuramente più elevati di quella femminile: non vorremmo che gli sproloqui di Kaczyński trovassero lì la loro origine.

Immagine: Foto scattata a Milano nel 1934 da Aragozzini-Crimella. Milano, Brefotrofio Provinciale (ex), fondo Fototeca Archivio Storico.

La pillola del giorno prima per la sbornia del giorno dopo

Si possono evitare le conseguenze di un drink di troppo?

Una nuova pillola “miracolosa” (non a caso chiamata Myrkl, che si pronuncia “miracle”), in commercio nel Regno Unito, promette di limitare gli effetti avversi dovuti al consumo eccessivo di alcol: vale a dire, il dopo-sbornia. Si tratta di un integratore alimentare che va assunto da 1 a 12 ore prima di bere e promette di ridurre fino al 70% la quantità di alcol assorbita dall’organismo, che si riflette in una riduzione sia degli effetti a breve termine, come l’euforia, sia del malessere che compare il giorno dopo.

Se lo è domandato anche Tim Dowling, giornalista del Guardian, che si è lanciato in una prova sul campo, durata 4 giorni, della quale fornisce ai suoi lettori un divertente resoconto (https://www.theguardian.com/society/2022/jul/13/can-taking-pill-stop-you-getting-hangover#_=_). Il test, che ha visto il giornalista impegnarsi forse con eccessivo zelo, consumando quasi ogni sera una bottiglia di vino e una di birra, fa emergere considerazioni interessanti. Innanzitutto, dal momento che il dopo-sbornia è una condizione così difficile da definire e da misurare, è complicato valutare l’efficacia di una pillola che si propone di eliminarlo. Il secondo punto è che Myrkl necessita di una certa “premeditazione”: bisogna sapere con un certo anticipo che si ha in programma di consumare dell’alcol, cosa che sicuramente non avviene nel 100% delle occasioni. Un’altra considerazione si può fare anche sullo studio clinico (pubblicato su Nutrition and Metabolic Insights) fatto per testare il nuovo integratore: seppure ben progettato, ha coinvolto solo 24 partecipanti, con età media di 25 anni quindi molto giovani.

Ma l’aspetto più interessante, come ricordato anche da Tim Dowling, è: a chi è indirizzato l’integratore Myrkl? Se pensate che sia rivolto soprattutto a chi ha in programma una serata all’insegna dell’eccesso, vi sbagliate. I   produttori dicono esplicitamente che la pillola è per i bevitori moderati e che non è in alcun modo progettata per bere oltre le linee guida. L’impressione è quella di un grosso controsenso. I bevitori moderati non sperimentano di solito gli effetti della sbornia. Quindi perché mai una persona che consuma un bicchiere di vino o di birra ogni tanto dovrebbe prendersi il disturbo di comprare un prodotto del quale non ha bisogno e di assumerlo regolarmente? Non si tratterà semplicemente di pubblicità cautelativa volta ad evitare polemiche? La moderazione la si educa con l’esempio e la persuasione, non la si addomestica con una pillola…

IL PLAYBOOK DELLE NEFANDEZZE

Quando il fronte della salute pubblica sposa opzioni politiche illiberali

Leggo su The Lancet Global Health un editoriale [1], firmato da un gruppo di lavoro dell’Università di Melbourne d’intesa con OMS Ginevra e la scuola di salute pubblica dell’Università del Nevada, tutto dedicato alla formulazione di consigli tattici con cui i difensori dell’interesse pubblico dovrebbero efficacemente contrastare i portatori di interessi anti-salute. L’elenco di questi è lungo e vario: industrie del tabacco, dell’alcol, del gioco d’azzardo, industria farmaceutica, industria alimentare (limitatamente ai cibi processati e ad alto tenore di zucchero e sale), industria degli armamenti e delle armi da fuoco, automotive, reti sociali e settori tecnologici, petrolio e gas, industria chimica. L’accusa è quella di “promuovere e proteggere interessi commerciali, frequentemente a scapito della salute pubblica, dell’ambiente e della democrazia”. Si argomenta che se i governi non contrastano questi soggetti non solo danneggerebbero la salute pubblica ma anche la “sostenibilità, i diritti umani e la democrazia”. La tesi è chiara: l’azione pubblica, sia nel legislativo sia nell’esecutivo, deve allontanare da sé ogni possibile udienza accordata a portatori di interessi settoriali, a prescindere dalla legittimità dell’azione economica e di impresa. E di conseguenza gli attori istituzionali devono: (i) istituire norme draconiane sul conflitto di interessi a tutti i livelli; (ii) finanziare generosamente l’azione pubblica e statale riducendo privatizzazioni e concessioni di vantaggi al settore privato e alle grandi corporation con politiche fiscali severe; (iii) fare fronte comune con le organizzazioni della società civile e del terzo settore.

Intendiamoci: è doveroso che lo spazio pubblico sia regolato da procedure rigorose di regimentazione dell’influenza delle organizzazioni economiche, limitando pratiche occulte o non trasparenti e definendo un quadro operativo ispirato ad una logica di tutela dell’interesse pubblico. Altro è però costituire l’interesse pubblico come strutturalmente ostile e penalizzate di ogni tipo di attività economico-commerciale. Il programma di rilancio della salute pubblica promosso dagli autori è invece ispirato esattamente da questo obiettivo.

È necessario contrastare con forza e convinzione queste opinioni cui Lancet dà un’udienza esagerata.  In primo luogo denunciando l’assimilazione acritica e francamente inaccettabile di ogni forma di legittimo interesse economico con fattori di destabilizzazione sociale, politica o ambientale. L’industria dei farmaci e quella alimentare, ma anche le bevande alcoliche, messe allo stesso livello dell’industria degli armamenti è un controsenso. Poi bisogna intendersi sulla nozione di “Corporate playbook”. Per gli accademici che hanno scritto il viewpoint la nozione di salute pubblica coincide platealmente con il perimetro dell’azione statale finanziata con la tassazione e la cui governance è dettata dai canoni rigidi dell’esclusione dell’interesse legittimo e dell’interpretazione restrittiva di ogni forma di conflitto di interessi. Gli autori dell’articolo non sono sfiorati minimamente dall’idea che anche il settore pubblico è in parte organizzato come sistema di interessi in competizione fra loro (un esempio? I fondi e i programmi per la ricerca…). Inoltre l’appello retorico alle forze della società civile come naturali alleati del compito di tutela della salute è maldestramente indirizzato a senso unico, a favore di organizzazioni con agende proibizioniste e anti-sistema, quando non apertamente illiberali.  Gli autori pretendono di connotare come pre-politica e indipendente una posizione militante orientata da una precisa visione del rapporto tra salute, società e politica. L’articolo difende una concezione ingenua dell’interesse pubblico che viene fatto coincidere con politiche di riequilibrio fondamentalmente basate sull’arretramento della voce dell’impresa nella società e la costituzione di una più forte e intransigente voce dello stato nell’organizzazione della vita collettiva. Un ottimo programma elettorale, ma appunto, una piattaforma politica di parte che richiederebbe, magari, una competizione elettorale e un voto di maggioranza.

Il problema dell’asimmetria tra interessi settoriali e tutela delle fasce deboli della collettività è naturalmente una questione seria nel disegno di regole eque ed efficaci dell’azione di governo.  Ma la sua soluzione richiede un concorso complesso di valutazioni e di procedure che non possono che chiamare in causa le competenze e anche gli interessi delle parti. Incidentalmente le democrazie si chiamano così perché si delibera consultando tutti i cittadini e investendo della responsabilità di governo maggioranze programmatiche. E la politica si chiama così perché la ‘polis’ è di tutti e tutti possono contribuire a disegnarne il destino senza esclusioni preliminari.  Una politica di riduzione delle diseguaglianze che si propone di aggredire programmaticamente le imprese e di sciogliere le contraddizioni del mercato con politiche di controllo unilaterali e restrittive non è governance illuminata; è un programma travestito da agenda indipendente per promuovere obiettivi di parte in modo illiberale.


[1]     Lacy-Nichols, JL, Marten, R, Crosbie, E, Moodie, R (2022) “The Public Health Playbook, ideas for challenging the corporate playbook”, in: The Lancet Global Health 2022

GDS 2022: DROGHE & TRIBÙ MUSICALI

Musica e stili alimentari del consumatore di sostanze della porta accanto

Sono lontani i tempi in cui potevamo associare la droga ai musicisti “maledetti” del panorama rock e jazz e alla loro fine ingloriosa. Oggi il consumo di sostanze è molto più trasversale e collega profili anche molto diversi tra loro, a prescindere dal lavoro svolto, dall’età, da quello che mangiamo o dalla musica che ascoltiamo. Se non sorprenderà che musica classica e “bravi ragazzi” vadano ancora a braccetto (gli appassionati di questo genere presentano le percentuali più basse in assoluto per l’uso di droghe), forse stupirà sapere che la stessa cosa vale per i fan del rock e del metal non meno che del pop e del jazz: anche per loro le percentuali sono estremamente basse.
È questo l’interessante cambio di paradigma che arriva dal Global Drug Survey 2022 (GDS), che quest’anno, alla sua decima edizione, si occupa poco o nulla di alcol ed esplora invece il tema dell’uso di sostanze mettendole in relazione agli stili di vita, ai gusti musicali e alle abitudini alimentari. I dati sono stati raccolti tra 2014 e 2020, su un campione di ben 592.000 persone appartenenti a più di una ventina di paesi, tra cui l’Italia (la percentuale più alta proviene dalla Germania).
Restiamo in tema musicale: la cannabis risulta trasversale a tutte le tipologie, con un picco nella musica reggae, mentre è chi ascolta la musica techno e EDM (electronic dance music, che comprende una gamma di generi musicali che vanno per la maggiore in discoteche, rave e festival) che consuma più droghe: MDMA (ecstasy), cocaina e anfetamine soprattutto. Anche la frequenza con cui si esce la sera in giro per locali ha la sua importanza: i 246.000 “clubbers” intervistati dimostrano che c’è una forte correlazione tra quanto spesso si esce e l’uso di sostanze nell’ultimo anno, in particolare se si parla di MDMA e cocaina.
È interessante guardare la questione anche attraverso la lente delle abitudini alimentari. Qui, ad esempio emergono, forse sorprendentemente, i vegani: rispetto agli altri gruppi, hanno le percentuali più elevate nel consumo di droghe (escludendo tabacco e alcol), nonostante siano spesso indicati come i più “salutisti”. Forse perché l’essere vegano risulta spesso associato ad altri comportamenti, stili di vita e convinzioni personali. Un chiaro esempio del fatto che l’uso di droghe non è mai separato e slegato nella vita delle persone: spesso la preferenza di una sostanza rispetto a un’altra deriva dal modo in cui vediamo noi stessi, dall’immagine di noi che vogliamo dare, e la disponibilità al cambiamento arriva quando questa scelta non è più in linea con certe attese.
Ciò avviene soprattutto tra i 16 e i 24 anni, cioè quell’età in cui ha un ruolo importante la sperimentazione e in cui l’immagine che si ha di sé stessi è ancora fluida, cangiante, non cristallizzata. Fanno eccezione solo la cocaina, che raggiunge il picco tra i 25 e i 34 anni (probabilmente a causa del costo più elevato), e l’eroina, che invece vede un consumo molto basso ma stabile anche ad età maggiori. Dopo i 25 anni le percentuali calano verticalmente, un fattore che forse sarebbe da tenere in considerazione durante l’elaborazione delle policy: secondo gli autori del GDS, cercare di ritardare il più possibile il primo utilizzo ed evitare la criminalizzazione dovrebbero andare di pari passo non con leggi più severe, ma con politiche volte a proteggere e ad assicurare la salute delle persone soprattutto in quel momento della vita in cui è più frequente il consumo di sostanze, per permettergli di proseguire poi la propria vita in sicurezza.

Alcol e socialità, la riscoperta dell’acqua calda

David Nutt sui benefici sociali del bere e sul valore della moderazione

David Nutt è un noto esperto inglese in addiction che molti anni fa aveva fatto rumore affermando che la droga più letale del mondo era l’alcol. La classica tesi ad effetto che collega ciò che è più diffuso a ciò che più fa male e illudendosi che le droghe meno diffuse o illegali (come cannabis o cocaina) siano tutto sommato un problema relativo. È la linea di argomentazione spesso seguita da coloro che perseguono l’obiettivo di legalizzare la marijuana. Comunque le si prendano, affermazioni del genere provocano solo dubbie battaglie retoriche sulla contabilità del rischio e difficilmente contribuiscono a migliorare il profilo di conoscenza e di azione sul danno da dipendenza. Nutt, ora alla guida del think tank indipendente Drug Science, è ritornato recentemente all’attenzione grazie ad un’intervista rilasciata a Areni Global (un sito specializzato nella promozione del valore culturale del vino) in cui riprova a fare il punto.

Senza troppi giri di parole e citando in filigrana la più recente letteratura scientifica sull’impatto del vino e salute, Nutt distilla tre auree conclusioni: 1) l’alcol è comunque tossico e non si può mai dire che fa bene; 2) il vino a basse dosi e ai pasti potenzia al massimo un effetto protettivo cardio-vascolare; 3) il vino è un lubrificante sociale i cui benefici sulla vita umana non possono essere misconosciuti.

Affermazioni sul filo del rasoio per uno studioso formatosi nell’epidemiologia mainstream. Nutt corregge parzialmente il tiro dicendo che: sì, insomma, l’alcol fa male, però a certe condizioni… Se ai pasti comunque fa meno male… E poi i benefici sociali… Insomma non si può mica vivere di soli diktat sanitari!

Neanche una parola sul valore sociale delle altre bevande alcoliche che qualsiasi elementare sociologia del consumo ha da decenni messo in evidenza. Silenzio assoluto anche sul fallimento del modello inglese di contrasto all’abuso basato sulla lotta frontale a consumo responsabile e pubblicità. Senza contare la strizzatina d’occhio ai benestanti, capaci di stili di vita controllati e migliore prevenzione e protezione sanitaria. Dopotutto per loro il vino può andare, tanto se lo possono permettere visti i prezzi medi inglesi. E se si fanno male, si fanno meno male degli altri. Dunque per sdoganare il vino nel tempo del no safe limits basta ricondire le argomentazioni e presentarle in veste nuova.

È tutto così chiaro che si potrebbe perfino dire: condivisibile. Peccato che non si abbia il coraggio di ricordare che è invece nei paesi mediterranei che il valore culturale della moderazione è stato determinante nel modellare la socialità che adesso Nutt riscopre. E che proprio dalla comprensione dell’ambiguità del bere può nascere l’attitudine moderata, che unisce i benefici sociali con l’attenzione ai rischi. Comunque meglio tardi che mai.

La moderazione non è un’opinione

Il voto dell’Europarlamento dà un segnale sulla questione alcol e cancro

La doverosa azione europea di lotta al cancro ha trovato nella sessione di voto dell’Europarlamento di questa settimana una punto di sintesi nel testo BECA (Beating Cancer), frutto del lavoro biennale di una commissione parlamentare guidata dall’oncologa ed europarlamentare francese Veronique Trillet-Lenoir. Sia durante i lavori in Commissione sia durante il dibattito in aula dello scorso 15 febbraio, una parte rilevante della dialettica politica si è focalizzata sui due paragrafi (15 e 16) che riguardano le bevande alcoliche.

L’associazione tra il bere in eccesso e il rischio dei tumori non è nuova. Le autorità di salute pubblica enfatizzano la portata di nuove ricerche che associano il rischio zero per il cancro al non consumo. Tale indicazione va però bilanciata con i benefici del consumo a dosi moderate per la salute cardiovascolare, specie se collegata alla dieta mediterranea e ad uno stile di vita salutare. E anche ad un rapporto con le bevande alcoliche adulto e maturo, che sa distinguere tra il valore anche sociale della convivialità, che in ultima analisi è cultura della moderazione e saper vivere, cosa ben diversa dalle scorciatoie abusanti di certi stili di consumo non alimentari e ispirati all’eccesso.

In tal senso i parlamentari di Strasburgo hanno licenziato un testo finale (con 652 voti a favore 15 contrari e 27 astensioni), che reintroduce la distinzione tra uso e abuso di bevande alcoliche e sostituisce le etichette allarmistiche del tipo “l’alcol causa il cancro”, con un’informazione più equilibrata sui rischi, ammonendo il consumatore ad attenersi ad un uso responsabile e ad un consumo moderato. Significativo il contributo degli Europarlamentari italiani, trasversale agli schieramenti politici.

È stata inoltre approvata nel testo finale la possibilità per i produttori di alcolici di sponsorizzare lo sport, fatta salva la riserva per eventi prevalentemente dedicati ai minori. Un modo per non privare di risorse spesso essenziali lo sport giovanile, le discipline meno praticate e il sostegno agli investimenti in impianti sportivi di piccole comunità locali. Il testo non ha valore di legge e non impone vincoli, ma condiziona il futuro della strategia europea contro il cancro e le politiche degli stati membri.

Al di là delle prese di posizione di questa o quella categoria, il segnale che viene da Strasburgo è importante. Nel voto è salvaguardata la centralità del diritto all’informazione quando si tratta delle scelte di salute dei consumatori, senza però criminalizzare preventivamente le bevande alcoliche con azioni di prevenzione che assimilano ogni tipo di rischio al danno. I parlamentari europei hanno dimostrato nei fatti, contro chi la nega, che la pratica della moderazione esiste ed è diffusa.