In questa fase di contenimento della pandemia gli spazi domestici sono diventati più stretti ed affollati: noia, nervosismo e privazione dei rapporti sociali “elettivi” possono mettere a dura prova le persone. Non stupisce che l’attrazione per il divieto abbia fatto invocare da più parti, tra le altre cose, uno stop almeno temporaneo alla vendita di bevande alcoliche: una misura preventiva per evitare consumi in eccesso tra quelle mura di casa che ora ci accolgono 24 ore su 24.

Altrove si è già provveduto: in Groenlandia, dove il governo ha vietato la vendita di alcolici per ridurre il rischio di violenze domestiche – che nel Paese sono una gravissima piaga anche in tempi ordinari – la messa al bando ha sicuramente ragioni fondate. Tra l’altro per arginare il sommarsi di una crisi sociale ad una crisi sanitaria in un territorio dove gli interventi di emergenza sono per definizione problematici. Per gli stessi motivi il divieto è stato messo in atto anche nel Sudafrica e, sorprendentemente, presentato e prontamente ritirato a fine marzo dal prefetto dell’Aisne, un dipartimento della Francia settentrionale. Anche in Nuova Zelanda sono state espresse voci favorevoli ad un divieto totale.

E in Italia? Da alcune parti è stato lanciato subito l’allarme, a partire dagli incrementi di acquisti di alcolici nei supermercati e tramite le app di consegna a domicilio (https://www.lanazione.it/firenze/cronaca/emergenza-alcol-1.5081278). Certo, inferire i consumi solo a partire dagli acquisti è un po’ un salto mortale, in particolare in questi tempi di quarantena: la necessità di dover uscire da casa il meno possibile spinge a fare spese meno frequenti ma più abbondanti. Eppure questo non vuol dire che tutto ciò che si compra venga poi effettivamente consumato nel breve periodo.

La “scorta” di alcolici riflette una scelta che nella maggior parte dei casi si giustifica con la concentrazione degli acquisti da parte delle famiglie (più pezzi per prodotto) in una situazione di rarefazione delle uscite, unito a qualche timore di esaurimento dei prodotti sugli scaffali. Sono fenomeni conosciuti e ricorrenti in emergenza che dipendono da una reazione psicologica che scatta come timore di perdita di normalità (cosa c’è di più certo della possibilità di entrare nel supermercato ad acquistare ciò che serve?).

Certo, il timore che ci si rivolga all’alcol per alleviare un po’ la tensione e la noia di questi giorni non si può escludere. Tempi lunghi di attesa di ritorno ad una qualche normalità, il venir meno delle norme di disciplinamento sociale che scandiscono la vita di lavoro e di studio, l’interazione continua con i social media, sono tutti fattori potenzialmente ansiogeni.

È sicuro che alcuni tra i più vulnerabili siano esposti all’abuso (qualcosa del genere si segnala in questi giorni per i pazienti di ludopatia, bruscamente indotti in astinenza dalla chiusura dei locali e dirottati massivamente sul gioco on-line: https://www.repubblica.it/cronaca/2020/04/06/news/il_coronavirus_spegne_slot_e_videolotterie_e_allarme_per_i_malati_d_azzardo-253244051/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P11-S1.8-T1).

Tuttavia forse dovremmo aspettare di avere in mano qualche dato reale. Al di là dell’alcol, gli esperti ricordano che in tempi di pandemia e confinamento forzato c’è un problema in più per le persone con un profilo di vulnerabilità alle dipendenze. Un’emergenza strisciante che passa in secondo piano rispetto alla malattie trasmissibili: a questo proposito FeDerSerD (Federazione Italiana degli Operatori dei Dipartimenti e dei servizi delle Dipendenze) ha scritto una lettera al Governo richiedendo una doverosa attenzione per un settore che, se trascurato, inciderà sicuramente e negativamente nel contrastare la diffusione della COVID-19 (http://www.federserd.it/files/novita/Documento_FEDERSERD_COVID19_al_GOVERNO.pdf). Forse dovremmo ricordarci di queste persone anche in tempi ordinari.